Il vangelo: come leggerlo

Vangelo-serataLOC-3Venerdì 24 ottobre, ore 20.30, nella sala presso la canonica di Vezzano, è stata propsota la serata sulla traduzione dei testi sacri dal greco con don Franco Pedrini: Il vangelo: come leggerlo.

Don Franco Pedrini, rispettando molto scrupolosamente il tempo che si era prefissato, un’ora o poco più, ha cercato di offrire una panoramica rapida e molto articolata delle problematiche connesse all’interpretazione autentica dei testi biblici, risalendo al significato che talune parole o espressioni avevano nel tempo in cui furono scritte. La lettura della Sacra Scrittura presuppone infatti, il possesso di alcune conoscenze specifiche linguistiche ed etnografiche, paragonabili agli strumenti di cui ogni artigiano si serve per svolgere il suo lavoro.  Inoltre nei Vangeli e nell’Antico Testamento non vi sono cronache o resoconti rigorosamente storici dei fatti narrati, poiché quei testi sono dei condensati di teologia che dovevano e devono servire ai credenti per alimentare la fede. La ricchezza dei linguaggi usati con grande sapienza dagli scrittori ispirati deve dunque essere osservata con grande attenzione.
I Vangeli poi furono scritti nel greco della koinè, la lingua “comune” più diffusa dopo Alessandro Magno equivalente all’inglese di oggi, dopo vari decenni di tradizione orale degli episodi della vita di Gesù. La traduzione  in latino e infine in italiano ha portato una inevitabile perdita del significato più profondo, di cui si è avuta piena consapevolezza solo in anni recenti.
Basti pensare che una svista di S. Gerolamo, il traduttore dei testi sacri in latino, ha portato per secoli a ritenere che fossero esclusi della salvezza portata da Cristo coloro che si trovavano, anche involontariamente, al di fuori della Chiesa Cattolica.
L’analisi puntuale dei testi originali porta così una serie di sorprese, fra queste: Maria non era cugina di Elisabetta, i Magi non erano re, né tre ma erano dei maghi, Gesù non è mai caduto durante la salita al Calvario…

 

Segue un approfondimento di Paolo Flor:

DALLA RELIGIONE ALLA FEDE

Nel linguaggio comune si parla di religione cristiana per distinguere il messaggio di Gesù dalle altre religioni, sottintendendone la differenza e la superiorità. Ma si può parlare della buona notizia di Gesù come di una religione? Per religione s’intende quell’insieme di atteggiamenti e di aspirazioni dell’uomo rivolti verso la divinità per ottenerne benevolenza e protezione e per religioso l’uomo che s’impegna ad osservare gli insegnamenti del proprio credo per raggiungere la comunione con la divinità. Sia religione che religioso sono termini assenti nei vangeli e le poche volte che compaiono nel resto del Nuovo Testamento non sono riferiti all’insegnamento di Gesù, ma alla religione ebraica. Nei vangeli non c’è traccia neanche degli altri termini appartenenti all’ambito della religione, quali virtù, sacro, sacrificio, culto, venerazione, devozione, pietà, liturgia, altare, obbedienza e nemmeno il termine sacerdote, che nei vangeli indica sempre gli appartenenti al clero giudaico.

La grande differenza tra le religioni, compresa quella ebraica, e il messaggio di Gesù sta nel diverso modo di rapportarsi con Dio e di conseguenza con gli uomini. Mentre in ogni religione l’uomo è chiamato a servire il suo Dio, con Gesù s’inaugura l’epoca nella quale è Dio che si mette a servizio degli uomini. Solo il “Dio con noi” (Mt 1,23) poteva enunciare chiaramente questo cambio della relazione con il Signore e solo il “figlio amato” (Mt 3,17) poteva far conoscere la realtà del Padre, perché “Dio, nessuno lo ha mai visto: l’unico figlio, che è Dio ed è in seno al Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).

La dichiarazione di Gesù che “Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20,28), segna il passaggio dalla religione, concepita come servizio alla divinità, alla fede intesa come risposta degli uomini all’amore di Dio (Mt 8,5-10). I! nuovo rapporto con Dio inaugurato da Gesù non si basa più sull’obbedienza alla Legge, ma sull’assomiglianza all’amore del Padre (Le 6,35). La “Santa alleanza” (Le 1,72) stipulata da Mosè, il “servo di Dio” (Ap 15,3), come un patto tra dei servi e il loro Signore, si rivelò inadeguata a manifestare l’originale relazione tra il Padre e i suoi figli annunciata da Gesù e fu sostituita dalla “nuova alleanza” (Le 22,20; l Cor Il,25). Questa alleanza non poteva essere espressa con i termini usuali della religione e gli evangelisti, nello sforzo di divulgare la buona notizia di Gesù, hanno cercato nuove espressioni con le quali formulare il loro credo, trovando nel verbo agapao e nel sostantivo agapé i termini più adatti.

Infatti nella lingua greca i diversi significati di amare venivano espressi essenzialmente con quattro termini. Con storghè (stérgo) si esprimeva il sentimento d’amore che i componenti della famiglia provavano l’un l’altro, o l’amore che univa gli sposi. La passione e il desiderio venivano personalizzate con eros, il dio più potente di tutti gli altri dèi perché capace di dominarli. Per l’affetto fraterno si adoperava philia (phileo) e infrne con agapè (agapao) si indicava un amore di preferenza e di apprezzamento che doveva essere dimostrato. Per gli autori del Nuovo Testamento solo agapè e agapao erano in grado di esprimere un amore capace di rivolgersi perfino a chi non lomerita: “Amate i vostri nemici” (Mt 5,43). Se nei vangeli e nel resto del Nuovo Testamento è abbondante l’uso del verbo agapao, più raro è quello di agapè. Tra gli evangelisti il termine viene impiegato una sola volta da Matteo (Mt 24,12) e da Luca (Le Il,42) e più frequentemente da Giovanni (Gv 5,42; 13,35; 15,9.10.13; 17,26). L’ampio significato del greco agapè, risulta impoverito dalla traduzione nella lingua italiana dove viene reso per lo più con amore (o carità) , in quanto il termine amore racchiude sia il concetto dell’eros sia quello dell’agapé, vocaboli che nulla hanno in comune tra loro. Sia il verbo agapao sia il sostantivo agapè troveranno un ampio impiego negli scritti di Paolo e la sua massima esaltazione nelle Lettere ai Corinzi, con l’inno all’agape (l Cor 13,l-l3) e con la definizione che Dio è “Il Dio dell’amore” (2 Cor 13,11). La comunità cristiana, in un crescendo di esperienza nello Spirito e di comprensione del messaggio di Gesù, non solo sperimenta che l’amore procede da Dio e che Dio ama, ma giungerà poi ad affermare che “Dio è amore” (I Gv 4,8.16).

Per Dio amare non è una delle tante espressioni del suo essere, come il governare, il proteggere, il perdonare, ma è la sua stessa realtà. Per questo nel Dio-Agape sono incompatibili espressioni che non siano formulazioni di questo amore. La defrnizione di un Dio-Agape contrasta radicalmente con qualsiasi concezione religiosa della divinità e mostra l’abisso tra la religione e la fede, tra l’amore richiesto e quello donato. Manifestazione tangibile del Dio-Agape è il “Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (I Cor 1,23). Solo l’agape poteva far coesistere senza contraddizioni il Dio onnipotente con quello crocifisso.

I! mondo, al quale gli autori del Nuovo Testamento proponevano il tema specifico e originale dell’agape, era dominato dalla cultura greca dove regnava indiscusso il motivo religioso dell’eros. L’annuncio del Dio-Amore che si fa carne per congiungersi con l’uomo s’imbattè con un mondo filosofico-religioso per il quale l’anima era invece una prigioniera che anelava alla liberazione dalla carne per tornare a congiungersi con il suo Dio.

Il messaggio di Gesù venne si accolto, assimilato, ma anche contaminato dall’incontro con la filosofia ellenistica che lo condizionò pesantemente e, nonostante gli autori del Nuovo Testamento avessero escluso dal loro vocabolario il motivo dell ‘eros, questo riuscì a insinuarsi nella spiritualità cristiana, a sovrapporsi e a sostituirsi a quello dell’agape.

In realtà non esiste nulla di compatibile tra eros e agape. Se l’eros è atto a esprimere l’anelito religioso dell’unione dell’uomo con Dio, solo l’agape può esprimere quella di Dio con l’uomo. Nell’eros l’uomo deve innalzarsi per fondersi con il suo dio. Nell’agape è Dio che discende per comunicare all’uomo.

Se l’eros può esprimere il bisogno dell’uomo di crearsi un dio quale proiezione delle proprie paure e ambizioni, solo l’agape può raffigurare il bisogno di un Dio che crea l’uomo quale manifestazione della sua stessa condizione divina. Mentre nell’eros l’uomo cerca Dio per colmare la propria sete di divino, nell’ agape Dio cerca l’uomo per trasmettergli la pienezza della sua divinità: “a quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Se la religione può enunciarsi con l’eros, solo l’agape può esprimere la fede. Infatti mentre l’eros può manifestare la comunione con un dio considerato il sommo bene desiderabile, unicamente l’agape può formulare la comunione di Dio con l’uomo.

L’eros è sempre interessato a ottenere qualcosa e anche l’amore verso l’altro ha come obiettivo la ricompensa da parte di Dio: il prossimo viene amato per Dio, fine ultimo di ogni aspirazione. Nell’agape il prossimo viene amato con Dio e come Dio. L’eros è la spinta verso il oprannaturale e sfocia nel misticismo. L’agape impedisce ogni fuga verso l’alto e resta radicata nel servizio. Mentre il primo isola dal mondo, il secondo ne diviene il sale (Mt 5,13). L’eros spinge l’uomo alla ricerca della propria perfezione religiosa, meta tanto astratta e lontana quanto grande è l’ambizione dell’individuo. L’agape spinge l’uomo al dono di se stesso che è concreto e immediato come lo è stato quello di Gesù.

Se nella religione l’uomo è chiamato a sacrificarsi per il suo dio, con Gesù è Dio che si sacrifica perl’uomo (Mt 20,28). L’uomo non deve privarsi del pane per offrirlo a Dio, ma accogliere il Dio che si fa pane per lui (Mt 26,26).

La differenza tra l’eros e l’agape è che mentre il primo cerca la propria felicità, il secondo la vuole comunicare.

Nonostante queste grandi differenze, la commistione tra eros e agape ha prodotto un ibrido spiritualismo che ha trovato la sua formulazione nelle espressioni “per amore di Dio/per carità cristiana”. L’amore cristiano, l’agape disinteressato, fu così soppiantato dalla carità cristiana nella quale si celava insidioso l’eros, l’amore che trae vantaggi e benefici, anche spirituali, da quel che fa.

Se nell’agape l’amore per il prossimo era il frutto dell’amore di Dio all’uomo, nella carità cristiana diventa un mezzo per accedere all’amore di Dio. Il prossimo non interessa per se stesso, ciò che importa è Dio, fine ultimo dell’azione caritativa, e il fratello non è amato per se stesso, ma in quanto indispensabile elemento per manifestare e accrescere la propria santità.

La necessità per l’eros di trovare una motivazione al proprio amore ha prodotto anche l’equivoca spiritualità dell ‘amore verso l’altro perché in costui viene riconosciuto il volto del Cristo. L’amore, da agape disinteressato si trasforma nella carità che “ha già la sua ricompensa” (Mt 6,2) e la sua azione diventa inefficace e sterile poiché non c’è nulla di più avvilente che essere amati per amore di Gesù e non esiste perdono più umiliante di quello ricevuto per carità cristiana.

Identificandosi con gli emarginati della società, Gesù non si pone come premio al traguardo finale, ma quale slancio d’amore che consente all’uomo di amare generosamente come si sente amato. Il credente non ama perché nel povero c’è Gesù, ma perché egli, povero, è già stato gratuitamente amato dal Signore: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). Gesù insegna a nutrire l’affamato perché è affamato, accogliere lo straniero perché straniero, ecc., e non perché in queste categorie ci sia il Signore. L’agape non consiste nell’amare il prossimo o occuparsi del bisognoso perché in essi si vede Dio, ma nel vedere, come Dio, il bisogno dell’altro e cercare così di alleviarlo.

La differenza tra il motivo dell’ eros e quello dell’ agape è lo stesso della differenza tra la religione e la fede. Nella religione/eros si agisce per Gesù, nella fede/agape si agisce con Gesù. Mentre l’azione per Gesù è destinata al fallimento, come Pietro che voleva dare la sua vita per Gesù e finirà poi per rinnegarlo, agire con Gesù porta a un processo di somiglianza sempre maggiore con il Signore, come Tornmaso, il discepolo detto il gemello di Gesù perché disposto a dare la sua vita con il suo Signore e per questo capace della più alta professione di fede di tutto il vangelo: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28).